Alla sinistra orografica del fiume Tanaro, nella splendida cornice delle colline ripide e scoscese dai terreni giallo-ocra, si colloca il Roero, magnifico territorio multiforme, noto per l’antica e rinomata tradizione enoica, che oggi si afferma con i vini del Roero.
Una terra aristocratica sotto tutti gli aspetti: nel nome (che deriva dall’omonima famiglia che nel Medioevo dominò per vari secoli questi territori) e nel paesaggio “ricco di torri e castelli”.
Queste terre sono estremamente varie: si alternano infatti in rapida sequenza la selvaggia e incontaminata bellezza delle Rocche (fenomeno geologico di erosione che ha dato vita a canyon profondi oltre 100 metri), le ordinate geometrie dei vigneti, la leggiadria dei frutteti e l’imponenza dei secolari castagni.
Calarsi in questi spettacolari paesaggi è un’esperienza suggestiva e indimenticabile, un po’ come abbandonarsi a memorie lontane, lasciandosi sorprendere dalla sensazione che qui il tempo e l’uomo abbiano ancora un legame profondo con le stagioni e con la terra.

Vini del Roero: un vino perfetto da una terra perfetta

Il profilo geologico del Roero, più recente rispetto a quello di Langa, trova origine dallo smantellamento e dal rimescolamento di strati sovrapposti di diversa provenienza, depositatisi in tempi remoti sul fondo cristallino di un antico mare interno.

Nei nostri terreni agrari, tutti situati in collina e quindi estremamente vocati alla viticoltura, prevale la sabbia mescolata all’arenaria, roccia fragile sedimentaria di origine marina, ricca di calcare e argilla.

La ricchezza di questi minerali, insieme a calcio, fosforo, potassio e altri microelementi, contribuisce a una perfetta coltivazione della vite, mentre la quantità giusta di piogge, inserita all’interno di un particolare microclima, dà vita ai caratteri primari degli eccellenti vini del Roero.

Un territorio che ha ispirati molti. Un esempio è quello di Giovanni Tesio, critico letterario e Docente universitario che in “All’enoteca del Roero. Luoghi, uomini e parole delle colline del vino” (Sorì Edizioni) lo descrive in questo modo:

“Per chi parta da Torino, la statale da percorrere è la 29, del Colle di Cadibona, quella che va verso Alba, passando per Moncalieri, Cambiano, Poirino, Pralormo. A fare da frontiera c’è Montà: “…Dopo Montà alla prima curva, l’orizzonte si apre larghissimo, frastagliato di bricchi, di paesi alti sui colli, di campanili e di torri; sembra di essere attesi, in quel paesaggio mosso e vivo, e si scende veloci, oltre Canale, al Tanaro gonfio di piena…” (Carlo Levi, Ritorno ad Alba, 1953).

È la porta sud-orientale del Roero, una terra che non da molto, rispetto alla Langa più rinomata, va cercando e trovando la sua dimensione.
Una zona incastonata tra le provincie di Torino, Cuneo, Asti, delimitata a sud e sud-est dalla riva sinistra del Tanaro, tagliata come una scimitarra dalla linea di mezzo delle “rocche” che scuotono il paesaggio con aspra e labirintica varietà, sprofondando in orridi e forre da eremiti, risalendo a bricchi ripidi come lame, scarmigliando geometrie precarie in strapiombi, saliscendi, boschi, canneti, gli infiniti anfratti dell’avventura, tra masche miciline e malesie salgariane.

Andarci, in Roero, per torri e per castelli, per chiesette foranee e musei, per vigne e castagneti, scollinare sopra conchiglie fossili per sentieri che si rintanano improvvisi dentro terre friabili e compatte, striate di rosso come le pesche di San Michele.

Scovare zone di castagni centenari, enormi tronchi nodosi che tendono al cielo braccia avvolgenti e stranamente esotiche, da baobab. Coglierne la stella, percepirne la varietà (non solo vigne ricavate ovunque, strappate anche all’impossibile e all’improbabile, non solo scassi all’insegna della nuova ricchezza).

Frugar cantine per incontrare i rabdomanti, gli alchimisti, i cultori di una scienza che si fa religione, se è vero che il vino lega le generazioni e si (ci) connette alle radici stesse della nostra anima ancestrale: uomini che veniamo da Dioniso, uomini che amiamo i frutti della passione. Scoprire, in Roero, vini di due tipi: l’Arneis e, appunto, il Roero docg. Bianco il primo, rosso il secondo. Vitigno autoctono il primo, vitigno nebbiolo il secondo. I cultori della materia – favolosi e sapienziali – del Roero doc dicono che “tiene il passo del Barolo e del Barbaresco di Langa”. E non è gente abituata ad esagerare.

Tutelari come numi – all’indritto di vigneti a volte vertiginosi – gli sparsi ciabòt, ieri luoghi di sosta e torri di vedetta contro i marodeur locali, oggi custodi araldici di un genius loci indissolubile. Sono modesti, i ciabòt, e non appartengono all’edilizia d’arte. Sono discreti, i ciabòt, e non fanno nemmeno colore. Sono dimessi e rustici. Ma non passano inosservati.

Son “casotti” annodati a nomi indigeni e a sensi remoti. Bello immaginare il contadino che vi depone gli attrezzi, che ci fa la sua sosta alla controra, che osserva le scie di un azzurro vitale, le spie di un verde concreto. Poesia, per lui, è solo vita che si rinnova”.

SUOLO

Si alternano due tipologie di suolo: un primo sabbioso di origine marina, ricco di fossili e povero di calcare. L’altro costituito da una piastra limosa grigio-bluastra, più calcarea e argillosa.

CLIMA

Le precipitazioni nel Roero si attestano su valori piuttosto bassi rispetto la media italiana. La vicinanza alla catena montuosa Alpina garantisce escursioni termiche importanti.

UVA

Il Roero è uno dei rari territori vocati alla coltivazione di uve rosse e uve bianche. In particolare Nebbiolo e Arneis si esprimono al meglio, dando vita ai due grandi vini Roero Docg.